Il recente decreto del governo che ha autorizzato il rientro in servizio dei sanitari “no vax”, sfrondato del suo carattere palesemente ideologico (o meglio post-elettorale), pone di fatto una serie di interrogativi che si sarebbero comunque posti dopo la scadenza dell’obbligo vaccinale fissata al 31 dicembre dal precedente Governo, ovvero come gestire la fine della sospensione dall’esercizio professionale per i circa 3800 medici, di cui la metà pensionati e circa 600 odontoiatri (non proprio una boccata di ossigeno per la carenza medica come pure è stato detto dai fautori del provvedimento), 2600 infermieri e 1200 farmacisti.
Per prima cosa sarà necessario che gli Ordini professionali revochino la sospensione dai rispettivi albi dei loro iscritti che, per scelta deliberata, non si sono messi in regola con l’obbligo vaccinale Covid. Subito dopo, i liberi professionisti potranno tornare ad esercitare, mentre i dipendenti dovranno attendere le decisioni delle direzioni sanitarie evocate dal ministro. Il neoministro della Salute Schillaci, infatti, interrogato sul punto, ha detto chiaramente che dovranno essere proprio le direzioni sanitarie a decidere sulle modalità di reintegro di questi professionisti, riferendosi ovviamente ai sanitari dipendenti del SSN, cioè circa 1800 medici e la quasi totalità dei 2600 infermieri, scaricando sui livelli tecnici delle aziende sanitarie il peso delle decisioni.
Perché, diciamolo con la dovuta franchezza, è dura dover consentire il reintegro nel servizio sanitario pubblico di professionisti che si sono sottratti all’obbligo vaccinale durante la pandemia ostentando una dichiarata contrarietà ai vaccini come mezzo primario di prevenzione delle malattie infettive trasmissibili, soprattutto quando questa posizione (sia pur pagata a caro prezzo con la sospensione) stride con la funzione primaria di un operatorio sanitario, ovvero avere come obiettivo la salvaguardia della salute dei cittadini, ed in particolare dei più fragili. Ma, superato questo scoglio, che non è di natura ideologica quanto piuttosto di tipo etico e deontologico, immaginiamo le direzioni sanitarie impegnate a valutare le modalità di reintegro di questi operatori.
Detto subito che in questo caso le esigenze di protezione del lavoratore sono secondarie, perché la normativa in materia prevede la necessità di un giudizio di idoneità solo in caso di rientro da assenze per oltre 60 giorni a causa di malattia o infortunio, oppure nel caso in cui lo richieda il lavoratore stesso, le direzioni sanitarie dovranno ponderare soprattutto le esigenze di protezione dei pazienti dai rischi connessi all’assistenza. La presenza di operatori non vaccinati è sicuramente un rischio per i pazienti, soprattutto fragili e immunodepressi, per cui c’è da aspettarsi che nessuno di questi operatori sarà assegnato né a reparti di degenza né a servizi ambulatoriali né a residenze sanitarie, dove sono prevalentemente assistiti questi pazienti.
La normativa della regione Puglia in materia è molto netta, pienamente vigente, non più impugnabile dal Governo e non consente alcun dubbio in merito, rappresentando una guida sicura e avanzata per le direzioni sanitarie. C’è da giurare che le regioni sprovviste di analoga normativa prenderanno a modello la regolamentazione pugliese o produrranno ulteriori norme in materia, magari valorizzando l’importanza dell’uso delle mascherine (il cui obbligo per fortuna ancora resiste), o dell’attività di testing mediante la previsione di frequenti tamponi diagnostici cui sottoporre i non vaccinati.
La conseguenza più prevedibile è che questi professionisti saranno destinati a servizi con scarso o nullo impatto assistenziale diretto, se non a funzioni meramente amministrative. In ogni caso è lecito aspettarsi da questa situazione un aumento generalizzato del contenzioso da parte degli operatori sanitari reintegrati, per i più svariati motivi quali ad esempio eccesso di potere, de-mansionamento, mobbing addirittura o altro, quindi in sede civile, penale e amministrativa, senza escludere la possibilità che il Governo impugni eventuali nuove leggi regionali in materia con il ricorso alla Corte Costituzionale.
Come si vede, la questione non è chiusa con il reintegro dei sanitari “no vax”. La questione è se il l’operatore sanitario iscritto ad un Ordine, che ha il ruolo di Ente sussidiario dello Stato nella tutela dei Cittadini ai fini della garanzia del diritto alla Salute previsto dall’articolo 32 della Costituzione, avendo quindi come obiettivo precipuo della sua professione la tutela della salute sia dei singoli che della comunità, non debba sottoporsi alle vaccinazioni appositamente previste dai piani nazionali di prevenzione per il solo fatto di essere un professionista sanitario. La questione è dunque essenzialmente etica e deontologica, e giammai ideologica.
In tal senso è auspicabile che si lavori per una veloce integrazione dei Codici Deontologici degli Ordini cui afferiscono gli esercenti le professioni sanitarie in cui sia finalmente previsto l’obbligo vaccinale contro le malattie infettive di rilevanza professionale indicate dallo Stato nei suoi documenti di programmazione sanitaria. Sarebbe un segnale forte e chiaro che riporterebbe su un terreno più appropriato la questione, depurandola da tutte le scorie che purtroppo continuano ad intossicare il dibattito pubblico sulla materia.