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La legge sulla autonomia differenziata e i suoi effetti in sanità: un’alternativa possibile (Pt.4)

23 Agosto 2024

Soddisfare le richieste di autonomia differenziata in sanità proposte da alcune Regioni, o almeno una parte di tali richieste, comporta necessariamente garantire un flusso di risorse aggiuntive rispetto al riparto assicurato dal Fondo Sanitario Nazionale. Diversamente, non avrebbero senso le richieste di poter gestire in autonomia le politiche tariffarie per le prestazioni ambulatoriali e per i ricoveri ospedalieri, oppure le richieste finalizzate a sottoscrivere contratti integrativi regionali più remunerativi per i professionisti, come anche le richieste di derogare dal tetto per le assunzioni fissato a livello nazionale. Tutte queste richieste, in attesa di essere valorizzate come LEP(1) (livelli essenziali delle prestazioni), evidenziano l’esigenza da parte delle regioni di rendere appetibile l’accesso ai Servizi Sanitari interessati, in un contesto generale dominato dalla scarsa disponibilità di personale sanitario provocato da errori di programmazione ultra-trentennali e, più in generale, di scarsa attrattività del servizio sanitario pubblico a fronte della concorrenza esercitata dal settore privato e, soprattutto, dal mercato estero. Si tratta evidentemente di una condizione che accomuna tutte le regioni italiane e che sta determinando, soprattutto in questi ultimi anni, un apparente irreversibile declino del servizio sanitario pubblico. 

Basterebbe questa motivazione da sola a giustificare la necessità di opporsi con forza a questo modello di autonomia differenziata in sanità, un modello che tende ad attrarre più risorse in regioni già molto performanti in ambito sanitario (e questo è certamente un loro merito), depauperando di fatto il fondo sanitario nazionale, o comunque il bilancio pubblico, a discapito di altre aree geografiche del Paese, le quali hanno le stesse esigenze delle regioni richiedenti autonomia, ma che non hanno la capacità di produrre un pari reddito fiscale. 
Molto spesso, anzi, queste regioni risultano anche scarsamente performanti in ambito sanitario, sia dal punto di vista dei risultati economici che funzionali, al punto di essere sottoposte alla procedura dei piani di rientro(2), altra variabile su cui torneremo più avanti. 

Sulla base di queste premesse, si può affermare innanzitutto che le richieste di autonomia differenziate di cui sopra, ma in realtà tutte quelle che sono state rappresentate, sono esigenze comuni a tutte le regioni, la cui attuazione genererebbe ovviamente dei vantaggi in favore della popolazione assistita, per cui è sacrosanto mettere a punto una risposta di sistema che tenga insieme tutto il Servizio Sanitario nazionale, impedendo strappi che in breve tempo lo porterebbero a distruzione, e con esso  quell’idea di  coesione sociale del Paese da esso incarnata, pur tra mille difetti e difficoltà. A questo proposito, una soluzione percorribile può essere individuata nell’incremento del Fondo Sanitario Nazionale al 7% del PIL(3) (oggi è stimato al 6,4%), così da avvicinarlo ai valori medi dei Paesi della UE, in un lasso di tempo quinquennale. Si tratta di un investimento stimabile in circa 35 miliardi di euro, sui quali la politica deve assumere impegni non eludibili poiché l’incremento già pur previsto per il triennio 2024-2027 da 138 a 147 miliardi non è sufficiente a garantire il quadro economico necessario. 

La politica deve farsi carico della necessità di reperire queste risorse, tra fondi PNRR, possibilità di accedere al MES sanitario(4), disboscamento della giungla dei bonus fiscali per non parlare del contrasto alla evasione fiscale. Un rifinanziamento così importante del SSN consentirebbe un forte recupero di efficienza all’intero sistema, che potrebbe più facilmente superare annose difficoltà per risultare da una parte  più attrattivo nei confronti dei professionisti sanitari, dall’altra più capace di estendere la platea dei livelli essenziali di assistenza per potenziare, ad esempio, le attività di prevenzione, rendere realmente fruibile la sanità di prossimità per le cure primarie e la gestione dei cronici, per potenziare le reti ospedaliere, cliniche e di ricerca su tutto il territorio nazionale, superando  le disparità territoriali  con una visione che tiene insieme tutto il Paese. 

Questo scenario necessita di un cambio di governance, per cui il Ministero della Salute deve acquisire un ruolo maggiore non solo per la programmazione e il monitoraggio della garanzia effettiva dei LEA, ma anche per la possibilità di intervenire attraverso gli organi tecnici di riferimento quale AGENAS nella verifica e nel superamento delle non conformità, sostituendosi alle regioni quando necessario. Anche per questo è necessario superare la logica prettamente economicistica dei piani di rientro delle regioni in deficit sanitario, i quali se da una parte hanno prodotto risultati finanziari virtuosi, dall’altra hanno compromesso a volte in maniera grave la fruizione dei servizi nei territori andando ad agire con l’accetta in situazioni già molto compromesse. Non può e non deve sfuggire in questa sede un richiamo alle responsabilità delle regioni, soprattutto di quelle con minore capacità di produzione fiscale o che sono ancora in regime di piano di rientro. Occorre che queste Regioni attuino politiche sanitarie realmente ispirate alla appropriatezza tecnico-organizzativa e alla correttezza gestionale, monitorabili e verificabili in ogni momento dagli organi di garanzia centrali, in un nuovo modello di governance Stato-Regioni più basato sulla valutazione tecnico-sanitaria che meramente economico-finanziaria.

Tanti altri aspetti meriterebbero di trovare posto in questa riflessione, dal finanziamento della long-term care, alla necessità di riequilibrare la spesa previdenziale oggi preponderante rispetto a quella sanitaria, anche con riferimento al ruolo dei fondi sanitari integrativi, che potrebbero essere coinvolti in uno scenario di più ampio respiro, regolato dallo Stato, con una proiezione sia privata che pubblico-privata. Resta però la necessità di salvaguardare a tutti i costi il servizio sanitario nazionale pubblico a tutela della salute di tutti i cittadini italiani, un bene costituzionalmente tutelato. Questa è l’idea forte che deve prevalere grazie al supporto di tutte le energie e le risorse disponibili nel Paese, con una forte regia dello Stato e senza riserve ideologiche: più idee, meno ideologia (fine).

(1) La legge 26 giugno 1986, n. 86, recante disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, sarà operativa solo dopo la definizione dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni), ovvero le funzioni da garantire a tutti i cittadini e il relativo costo. All’uopo è’ prevista la istituzione di una apposita Commissione.

(2) I Piani di Rientro nascono con la Legge Finanziaria del 2005 (Legge 311/2004) e sono parte integrante degli accordi stipulati dal ministero dell’Economia e delle finanze e dal Ministero della Salute con le Regioni che presentino deficit sanitario. Essi sono finalizzati a verificare la qualità delle prestazioni sanitarie e a raggiungere il riequilibrio dei conti dei servizi sanitari regionali. Attualmente le regioni interessate da tali procedure sono: Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Puglia e Sicilia.

(3) A questo proposito, risulta utile ai fini di una agevole comprensione la consultazione di “Cantiere Italia – Sanità”, a cura di Michele Bocci, edito su Repubblica del 27 luglio 2024.

(4) Il Mes sanitario (Meccanismo europeo di stabilità applicato in sanità) è uno strumento finanziario consistente in una linea di credito messa a disposizione in ambito europeo, sorto nel 2021 come sostegno post-pandemico ai servizi sanitari della UE a copertura dei costi provocati dalla pandemia Covid-19. In base alla parametrazione rispetto al PIL, l’Italia potrebbe accedere a un prestito di 36 miliardi di euro. L’Italia è l’unico Paese della UE a non avere ratificato il Trattato istitutivo del MES.

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