Le ricette per guarire le sofferenze del servizio sanitario nazionale sono tante e contraddittorie, e quasi sempre si avvitano sul rapporto tra pubblico e privato come frutto di posizioni ideologiche estreme, ognuna delle quali coglie alcuni punti del problema senza però coglierne la complessità.
Proviamo ad unire alcuni punti. Innanzi tutto, la questione del finanziamento. Per uno dei Paesi con il maggiore debito pubblico dell’OCSE come è l’Italia, il rifinanziamento registrato dal 2019 ad oggi (circa 7 miliardi), sia pure per effetto della emergenza Covid che ne ha assorbito gran parte, è sicuramente un grosso passo in avanti. Non dimentichiamo inoltre l’enorme spinta data dalle risorse del PNRR e del Fondo Sociale Europeo, tra l’altro vincolate per potenziare la sanità territoriale, il che è allo stesso tempo parte rilevante della soluzione ai problemi del nostro servizio sanitario.
Ebbene, tutto ciò può rappresentare una spinta per ripartire, anche se obiettivamente non basta: portare la spesa sanitaria nazionale al 7% del PIL (ora è circa al 6%), così da raggiungere la media OCSE, comporta la necessità di una ulteriore iniezione di risorse ordinarie stimata intorno a circa 12 miliardi di euro.
Dove sono queste risorse?
Bisogna avere il coraggio di ammettere che queste risorse non ci sono, a meno di non essere capaci di effettuare una rivoluzione fiscale in grado di recuperare subito almeno il 10% dell’evasione stimata, oppure di ratificare il MES e richiederne uno stanziamento immediato, il che non pare all’orizzonte. Rivendicare l’assoluto primato della dimensione pubblica, ovvero voler finalizzare il finanziamento pubblico esclusivamente all’erogatore pubblico, oltre a non essere previsto dal dettato costituzionale, non è realisticamente possibile nelle condizioni attuali, e questo senza considerare l’effetto dell’autonomia differenziata regionale che si staglia all’orizzonte.
Dunque va ricercata una soluzione in una visione economica sociale e di mercato: accompagnare lo sforzo di dare continuità al progressivo incremento di risorse pubbliche, con la contestuale valorizzazione di erogatori privati che a vario livello possono offrire significativi segmenti di offerta, nell’ottica di garantire un accesso davvero universale ed equo al servizio sanitario. E’ questa infatti la declinazione vera del dettato costituzionale, sia pure in quadro di sostenibilità complessiva: creare le condizioni perché tutti possano accedere effettivamente in maniera equa e universale alle prestazioni sanitarie, obiettivo che non può essere garantito né da ricette statalistiche né da ricette liberistiche.
Questo comporta alcuni atti ormai inderogabili, come ad esempio adeguare le tariffe dei ricoveri ospedalieri, drammaticamente arretrate di circa 25 anni. Se per gli ospedali pubblici questa condizione viene risolta attraverso maggiori stanziamenti di bilancio, per i privati spesso rappresenta l’anticamera del fallimento, e questo è un problema per tutti. Ne è testimonianza la crisi finanziaria dei grandi ospedali ecclesiastici, che non sono dei privati sanguisuga, bensì storici punti di riferimento per l’assistenza dei cittadini, oggi in ginocchio soprattutto per gli alti costi dell’energia e per i quali non hanno accesso a ristori regionali.
L’ingresso del sistema assicurativo nel sistema di erogazione, infine, andrebbe incoraggiato per definire un assetto nel quale questi nuovi erogatori offrono un maggior numero di prestazioni (sia di ricovero che ambulatoriali) in maniera integrativa rispetto al sistema pubblico tradizionale, ad una platea sempre più allargata di potenziali fruitori, a fronte di benefici fiscali il cui minore gettito è compensato dall’aumentata produzione, così da non compromettere il flusso di finanziamento al servizio sanitario (questa sì sarebbe una grave eterogenesi dei fini). Tutto ciò potrebbe rendere più sostenibile la spesa delle famiglie peri ricoveri in RSA degli anziani non autosufficienti, che nel sud rappresenta la principale destinazione della spesa sanitaria privata.